Capitale, lavoro e produzione
Un aspetto molto importante dell’economia è la
comprensione del legame esistente tra il capitale,
ossia l’insieme dei mezzi di produzione, il lavoro
e la produzione stessa.
Nel caso di una singola azienda, quindi a livello micro, è certamente possibile definire
senza troppe difficoltà un legame tra la produzione e il capitale e il lavoro
impiegati per conseguirla. Ciò è possibile perché, a livello micro, la singola
azienda non è in grado di influire significativamente sul livello dei prezzi
complessivo che, perciò, è semplicemente un dato.
Inoltre, i mezzi di produzione sono acquistati,
quindi l’azienda non ha su di essi alcun controllo, in fase di produzione. Ciò anche se l’azienda si
trova in posizione di monopolio sul
mercato. Questo tipo di legame è rappresentato da una funzione, detta funzione di produzione, espressa da una
relazione del tipo Y = F(K, L), in
cui Y è la produzione, K il capitale e L il lavoro.
Secondo la visione economica dominante, tale tipo di funzione
è pure definibile, tramite il Prodotto Interno Lordo (PIL), considerando il
sistema aggregato come un’unica grande
impresa. Fissate, dunque, le dotazioni di un sistema economico, cioè il
capitale K complessivo e il lavoro L, la funzione di produzione restituirà
un valore univoco della produzione
corrispondente al livello di produzione
naturale Yn del sistema
economico. Sempre secondo tale visione, tale livello di produzione naturale è
indipendente dal livello dei prezzi reale,
perché questo si forma in condizioni di equilibrio
macroeconomico generale tra domanda e offerta.
Infatti, secondo i teoremi di riferimento della teoria
neoclassica (Walras e Arrow-Debreu), l’equilibrio macroeconomico generale
dipende dal valore relativo di ciascun prodotto a meno di un fattore
moltiplicativo arbitrario, il cui valore
è determinato dall’equilibrio tra la domanda e l’offerta. Perciò, solo in
condizioni di equilibrio è possibile
definire il livello dei prezzi reale, mentre, in condizioni lontane dall’equilibrio, il livello dei prezzi è nominale. Agendo opportunamente sulla
domanda, tramite appropriati interventi di politica economica, è possibile
ottenere il livello di produzione naturale
che è univoco perché dipende esclusivamente dalle dotazioni del sistema, unitamente al livello dei prezzi atteso; condizione che può realizzarsi nel lungo periodo, rimuovendo le rigidità e resistenze del mercato (liberalizzazioni). Secondo questa visione, l’attuazione di adeguate politiche
economiche consente di regolare il livello
dei prezzi di un sistema economico con lo scopo di conferire a esso una
maggiore competitività nel commercio
internazionale.
La descrizione molto sintetica e grossolana fatta
della visione economica dominante, il mainstream,
non permette di vedere l’enorme apparato logico e matematico su cui essa si
fonda. Nonostante la sua potenza descrittiva, espressa da modelli matematici,
talvolta molto sofisticati, tale modellazione dell’economia si presta a
valutazioni critiche molto forti. Ricordiamo, infatti, che la tesi di un
teorema matematico è vera solo se sono rispettate le ipotesi.
Le maggiori difficoltà che si riscontrano analizzando
attentamente la costruzione teorica neoclassica sono le seguenti:
1. nelle ipotesi di base del modello
neoclassico è sempre supposto che l’informazione
sia sempre completa e alla portata di tutti;
2. è assente ogni riferimento all’evoluzione temporale dell’economia,
sicché si fa riferimento a breve, medio o lungo periodo solo secondo il tipo di
modellazione matematica attuata; ad esempio, il lungo periodo non è mai concretamente definito;
3. il capitale, cioè, l’insieme dei
mezzi di produzione non è un fattore
produttivo originario, come può esserlo nel caso di un’azienda singola, ma
è un fattore di produzione, a sua volta,
prodotto; infatti, i mezzi di produzione entranti in un insieme aggregato
di aziende sono stati, a loro volta, prodotti da altre aziende dell’insieme
aggregato;
4. viene attribuita alla moneta il ruolo di una merce meramente
rappresentativa del valore.
Le difficoltà teoriche inerenti ai primi due punti
possono essere raggruppate e sono strettamente connesse al fatto che in un sistema complesso, come quello
aggregato, è sempre presente informazione
mancante derivante dall’entropia
prodotta che comporta variazioni degli stati accessibili al sistema. Questa
informazione mancante è causa d’incertezza
e, in particolar modo, dell’indeterminazione
nelle scelte da parte degli operatori economici. L’evoluzione dell’entropia economica è, poi, strettamente
connessa all’evoluzione temporale
perché, come vedremo, ogni scelta economica è irreversibile, e comporta sempre una variazione di entropia.
Il principio di
massima entropia, che afferma che ogni sistema isolato massimizza sempre la
propria entropia, difatti, fissa il verso
dell’asse dei tempi perché, se l’entropia aumenta sempre, si ha sempre una
corrispondente perdita d’informazione
e l’informazione viaggia sempre dal passato verso il futuro, mai al contrario.
Non solo, ma la mole d’informazione mancante dipende dal tempo in cui essa si produce, essendo una grandezza
estensiva.
Per quanto attiene il terzo punto, la critica più
forte fu, per la prima volta, formulata dall’economista italiano Piero Sraffa,
il quale osservò che il capitale essendo costituito da un insieme eterogeneo di
merci prodotte dallo stesso sistema produttivo non può essere definito in
termini di valore, prescindendo del tutto dai prezzi monetari. Tale critica si
ritrova espressa nel modello di economia
dinamica, che fa riferimento al principio
di massima entropia, e si dimostra che il
capitale dipende dall’evoluzione del sistema economico stesso. Per di più,
esso produce effetti differenti sui sistemi economici in base al loro modo di
evolversi; in particolare, in base al modo in cui evolvono i prezzi. È, quindi,
una grandezza di scambio del sistema
economico ed è soggetta alla stessa dinamica
degli scambi. Lo stesso potrebbe dirsi per il lavoro, se non fosse che
quest’ultimo è il prodotto di un sottosistema vincolato da una contrattazione
preventiva all’attuazione degli scambi: le contrattazioni
unitarie di categoria.
Per quanto attiene all’ultimo punto, si vedrà che la moneta, lungi dall’essere una
semplice merce rappresentativa, è, invece, il parametro decisivo che è in grado
di regolare efficacemente un sistema economico ed è, persino, in grado di
contrastare efficacemente le variazioni di entropia
economica. In altri termini, essa è in grado di sopperire all’informazione mancante e contrastare l’incertezza, restituendo fiducia agli operatori. Va però modulata
opportunamente e sotto opportune condizioni, perché può tramutarsi da soluzione
dei problemi a problema stesso.
Se ora qualcuno va affermando che c’è un qualche
miglioramento attribuibile alle politiche economiche messe in atto, occorre che
si sappia che, in realtà, in questo momento, dietro a tutto ciò c’è un certo
signor Draghi che sta pompando moneta a pioggia dalla BCE, tramite il Quantitative Easing, al ritmo di 60
miliardi di euro al mese. Se questo quantitativo di moneta fosse indirizzato
nella maniera corretta, come indicato nel modello di economia dinamica, gli effetti sull’economia potrebbero essere ben
più appariscenti e positivi. Rimane da vedere, infatti, se questa massa di
moneta emessa produrrà un effettivo miglioramento degli scambi o si tradurrà,
invece, in attività meramente speculative.
La sintesi conclusiva di queste considerazioni è che,
per un sistema aggregato, venendo meno le ipotesi della modellazione mainstream, non è possibile definire una funzione di produzione univoca e,
tantomeno, riferirsi a grandezze da essa derivabili, come, ad esempio, la
produttività del capitale e del lavoro. Conseguenza di ciò è che non è
possibile definire un livello di produzione naturale associato alle dotazioni
del sistema, né un livello dei prezzi
reale che si ottiene in condizioni di equilibrio.
Al contrario, le dotazioni del sistema,
da cui la produzione dovrebbe dipendere,
sono l’effetto stesso della produzione e ciò vale oltre che per il capitale,
anche per il lavoro e per la tecnologia
impiegata perché, venendo meno le capacità produttive, vengono meno anche le
professionalità e le tecnologie di cui ci si può giovare nella produzione.
In un sistema complesso, come quello macroeconomico, dominato dal caos, altri sono i fattori decisivi: incertezza, preferenza per la liquidità e fiducia
degli operatori. Tutte queste sono grandezze considerate, dalla visione
economica dominante, come fattori
irrazionali perché, si ritiene, non possono essere inclusi all’interno di
un modello matematico in grado di fornire delle previsioni e delle misure.
Questi fattori possono essere manipolati,
semplicemente, agendo sui mass media.
Tutti questi fattori, invece, nel modello di economia dinamica, sono perfettamente includibili tramite
una modellazione matematica che s’ispira al più potente apparato modellistico
mai concepito, quello di discipline scientifiche ed esatte come la meccanica
statistica e quantistica, la teoria dell’informazione e la termodinamica.
Mentre la visione economica dominante dell’equilibrio
macroeconomico generale è una dottrina deterministica,
il modello di economia dinamica è di natura prettamente probabilistica e accetta la presenza di indeterminazione nel sistema. Inoltre tratta un tipo di probabilità
particolare, quella associata al buon
senso.
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