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venerdì 5 novembre 2021

Il trilemma, come un triello: ne possono rimanere solo due

 

“Il buono, il brutto il cattivo” è un film di Sergio Leone del 1966, di grandissima fama. A detta di uno che se ne intende di cinema, il regista americano Quentin Tarantino, è una delle pellicole più belle della storia del cinema e sono davvero in tanti, quelli che non riescono a dargli torto. Narra la storia di tre figuri in competizione tra loro per spartirsi un ricco bottino e, alla fine, a seguito di una celebre scena, denominata “il triello”, ne rimarranno solo due che, poi, si separeranno anche in maniera piuttosto brusca.

 Anche qui, narreremo una storia non troppo dissimile, che riguarda tre figure economiche che intervengono nella competizione internazionale e si vedrà che solo due di esse potranno concretizzarsi, a danno della terza. Il modo in cui ogni governo, nella gestione della competizione del commercio internazionale, decide di sacrificare una delle tre figure definisce, in modo inequivocabile, la sua politica economica, esattamente, come nel film citato, la decisione su chi sacrificare e chi no mostra chiaramente le simpatie dell’autore.

Le tre figure economiche, in questione, sono il capitale privato, che è di natura prevalentemente finanziaria, il tasso di cambio della valuta domestica, che può essere fluttuante o fisso, e la politica fiscale, che può essere attuata in maniera autonoma o meno. Il trilemma del commercio internazionale riguarda proprio queste tre figure e mostra che è impossibile attuarle tutte e tre contemporaneamente.

Precisamente, se si vuole mantenere l’autonomia della politica fiscale per sanare gli squilibri economici interni di un Paese, o si mantiene un tasso di cambio fluttuante e si permette l’ingresso di capitali privati esteri, oppure se si vuol mantenere un tasso di cambio fisso, occorre ostacolare l’ingresso di capitali privati esteri. Infatti, un  tasso di cambio fisso, unitamente all’arrivo di capitali privati esteri vanifica gli effetti della politica fiscale perché i capitali privati, proprio per l’assenza del “rischio di cambio”, arrivano in maniera copiosa e, per la loro natura di essere soggetti al regime fiscale di un altro Paese, si sottraggono alla politica fiscale domestica, vanificandola. Quindi, per attuare una politica fiscale autonoma o il tasso di cambio è reso fluttuante in modo da introdurre un rischio di cambio, oppure, se il cambio è fisso, devono essere poste limitazioni all’arrivo di capitali privati esteri.

Per contro, se si vuol mantenere il tasso di cambio fisso, o si rende autonoma la politica fiscale e, come visto nel caso precedente, si ostacola l’arrivo di capitali esteri, attuando anche “barriere protezionistiche” per far fronte ad eventuali scompensi nella “bilancia dei pagamenti”, oppure si penalizza la politica fiscale interna, senza preoccuparsi di sanare gli eventuali squilibri domestici, e si favorisce l’arrivo dei capitali privati esteri. In quest’ultima situazione, è evidente che il governo del Paese non può attuare alcun correttivo volontario per contenere squilibri e diseguaglianze e per ridurre la disoccupazione. Può solo confidare nel fatto che i capitali privati generino un meccanismo virtuoso che aumenti il livello di occupazione e, di riflesso, riduca anche le tensioni sociali.

In realtà, non esiste nessuna evidenza certa del fatto che i capitali finanziari esteri possano compiere un’azione di questo tipo in maniera definitiva. Le evidenze empiriche, messe in rilievo dall’economista argentino Roberto Frenkel e note a livello internazionale col nome di ciclo di Frenkel-Neftci, mostrano invece che l’arrivo di capitali esteri in un Paese, in condizioni di cambio fisso, quindi senza alcun “rischio di cambio”, inducono un meccanismo di instabilità finanziaria internazionale che è una sorta di riproposizione del ciclo di Minsky, valido a livello nazionale.

In particolare, l’arrivo dei capitali finanziari esteri induce un periodo iniziale di aumento dell’occupazione, la cui durata è variabile. A questo periodo, di iniziale prosperità, però, fa seguito il repentino abbandono da parte dei capitali privati esteri, non appena appare chiaro che le prospettive di crescita future del Paese sono compromesse. L’abbandono dei capitali esteri lascia il Paese in una situazione di profonda depressione, aggravata da una disoccupazione elevata e dal perdurare dell’assenza di politiche compensative. Il risultato finale è che dopo l’abbandono da parte dei capitali, “il tasso di cambio è lasciato libero” di fluttuare, solo dopo che “il capitale privato estero si è messo al sicuro”.

Per chi conosce il film, sembra quasi che l’autore de “Il buono, il brutto il cattivo”, nelle sue scene finali, da buon economista consapevole o inconsapevole, abbia voluto trasfigurare nei suoi personaggi questa particolare situazione economica. Oppure, più semplicemente, il film si presta sorprendentemente bene a descriverla in una analogia niente male. Chissà!

Ma perché mai le prospettive di crescita futura dovrebbero peggiorare, se sono presenti capitali esteri che producono lavoro e riducono la disoccupazione? Il motivo, che in questo blog è stato più volte evidenziato, è che l’arrivo dei capitali privati esteri non è una forma di liquidità, è invece una crescita negativa. Mentre la liquidità è qualcosa che può essere orientata a fare qualsiasi cosa, come aumentare il capitale, fare consumi, sanare squilibri e via dicendo, il capitale estero è, invece, orientato a fare una cosa soltanto: far crescere l’attività finanziaria di uno o più residenti esteri; quindi fa crescere il settore estero, comprimendo il settore domestico. Quest’ultimo, infatti, registra la smobilitazione dei propri capitali domestici, che, a livello aggregato, diventano, loro stessi, liquidità che i capitali esteri sono orientati a sottrarre, in forma di rendimento del capitale. Proseguendo questa azione, tutti i capitali domestici sono trasformati in  liquidità e, in questa forma, progressivamente sottratti e indirizzati verso l’estero. Al termine, nel sistema Paese, restano sempre meno capitali domestici e, con la loro scomparsa, le future possibilità di crescita del Paese peggiorano drasticamente. È allora che inizia la fuga dei capitali esteri e la desertificazione delle attività produttive del Paese che li ha ospitati.

Argentina docet

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