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martedì 8 dicembre 2015

La politica fiscale




Un primo sguardo a John Maynard Keynes

Senza alcun dubbio John Maynard Keynes è stato il più grande fra tutti gli economisti. Persino i suoi delatori sono stati costretti ad ammetterne la grandezza e si sono dovuti servire di una parte dei suoi insegnamenti per portare avanti le loro dottrine. Il modello di Hicks, un perno della teoria economica oggi dominante, noto anche col nome di modello IS – LM (Investiment Saving – Liquidity Money), ne è l’esempio più evidente; esso è l’applicazione della dottrina keynesiana depurata, per così dire, dei contenuti più scomodi e infarcita di un concetto del tutto estraneo alla concezione del grande economista inglese: l’equilibrio macroeconomico. Tra i contenuti della dottrina keynesiana, uno su tutti è stato messo in subordine, perché da molti considerato oscuro e incomprensibile: l’incertezza che affligge gli operatori economici. Keynes era dotato di una sensibilità in campo economico fuori dal comune che gli derivava dall’essere stato un esperto investitore in borsa. 

John Maynard Keynes: il padre della macroeconomia, della politica fiscale e del principio di cooperazione tra stati
John Maynard Keynes
 Fu proprio la crisi finanziaria del ’29 e gli eventi che vi conseguirono a modificarne l’atteggiamento, sebbene avesse già mostrato questa sua innata sensibilità quando, nel ’19, era stato chiamato, per conto della delegazione britannica, a discutere le condizioni di pace con la Germania sconfitta. Nel corso di quell’esperienza egli si oppose strenuamente alle pesantissime richieste di riparazione da parte della Francia, perché ne intravedeva le infauste conseguenze, al punto da abbandonare la sede dei colloqui, in segno di protesta.
L’incertezza è il nucleo del pensiero economico di Keynes. Questo nucleo s’intravede, oltre che nella sua opera più importante, la «Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta», nel «Trattato sulla moneta», in cui attribuisce alla moneta il ruolo di mitigare il senso d’inquietudine degli operatori quando è presente incertezza. Questa sua intuizione lo portò a introdurre il concetto di preferenza per la liquidità che si manifesta quando gli operatori fronteggiano l’incertezza spostando le loro attività di portafoglio verso gli accumuli monetari liquidi. Fu, inoltre, il primo, assieme al suo contemporaneo Alois Schumpeter, a intuire l’importanza del circuito della moneta bancaria che dà origine agli investimenti produttivi.
Proprio per l’importanza che ogni individuo attribuisce alla moneta, come risoluzione dell’incertezza, Keynes riprende e fa propria una tesi marxiana; quella, secondo cui, gli scambi economici non sono del tipo Merce – Denaro – Merce, cioè la moneta funge solo da intermediario negli scambi, ma sono del tipo Denaro – Merce – Denaro, cioè la merce è solo il mezzo affinché, negli scambi, possa ottenersi ancora più moneta.
Keynes intuì che l’incertezza tende a tramutarsi in preferenza per la liquidità e questa dà, a sua volta, origine al blocco del circuito monetario. Un’altra grande intuizione di Keynes è l’individuazione del tasso d’interesse critico che, nell’ambito del mercato finanziario, induce la trappola della liquidità. Ogni investitore, sostiene Keynes, ha una propria percezione del sistema economico e della sua redditività e quando il tasso d’interesse nominale scende sotto il tasso d’interesse critico, egli preferisce non smobilitare la propria liquidità e non investe. Ciò è dovuto al fatto che la liquidità, costituendo un antidoto all’incertezza, richiede per la propria smobilitazione un prezzo da pagare che è, per l’appunto, il tasso d’interesse. Se l’incertezza è elevata, in rapporto al tasso d’interesse vigente, l’investitore non smobilita la liquidità in proprio possesso.
Quando si manifestano queste condizioni, l’unica figura in grado di intervenire e contrastare l’incertezza dilagante è lo Stato. Questi deve indebitarsi per sostituirsi agli investitori che non investono e deve farlo mediante la spesa pubblica. Solo in questo modo, il circuito della moneta può riavviarsi. Per contro, le politiche monetarie della Banca Centrale, in condizioni di trappola della liquidità, sono del tutto illusorie. Anche l’emissione a pioggia di moneta si rivela inutile perché gli Istituti di Credito non investono su quei settori che non garantiscono un’adeguata redditività agli investimenti.
La spesa pubblica, dice Keynes, deve avere uno scopo ben preciso: contrastare la disoccupazione e garantire il pieno impiego. Ciò, al fine di favorire i consumi tramite l’espansione della ricchezza e, in particolare, il potenziamento della domanda; questa, a sua volta, per la sua natura connessa alla liquidità riduce l’incertezza e favorisce gli investimenti. La spesa pubblica deve, quindi, intervenire sempre quando si manifesta incertezza, proprio sui settori più colpiti dall’incertezza. Al contrario, la semplice emissione monetaria a pioggia può non giungere, affatto, laddove serve, perché bloccata dalla preferenza per la liquidità che orienta, invece, verso le attività puramente speculative.
Inoltre, la spesa pubblica va sempre anticipata da parte dello Stato e l’imposizione fiscale, che permette il recupero delle somme anticipate, deve avvenire solo dopo. Ciò perché la spesa pubblica, per effetto del moltiplicatore keynesiano, ben superiore all’unità, produce ricchezza amplificata proprio dal moltiplicatore e il prelievo fiscale deve avvenire solo dopo che la ricchezza si è amplificata nel modo suddetto. In questo modo, è anche garantito il pareggio di bilancio, in prospettiva futura, da parte dello Stato, non certo sempre e in tutte le condizioni.
Affinché ciò possa essere compiuto, lo Stato deve, però, possedere un’adeguata autonomia e il controllo della propria emissione monetaria. Proprio nell’intento di garantire ciò, Keynes tentò di compiere il suo ultimo grande sforzo: la riforma del sistema monetario internazionale. Si era, all’epoca, nel ’44, quasi alla fine della seconda Guerra Mondiale, e i delegati di 80 nazioni si erano riuniti, in una località del New Hampshire, denominata Bretton Woods, per ridefinire le regole della politica monetaria internazionale, nel dopoguerra. Keynes, come rappresentante del governo britannico, presentò la sua proposta di riforma: Proposals for an International Currency Union.
La sua proposta era la creazione di una valuta di riserva internazionale, denominata Bancor, emessa da un’International Clearing Bank, una sorta di banca mondiale che operava a camera di compensazione con saldi sempre pari a zero, concepita in modo che gli squilibri commerciali fossero sempre compensati e tali da operare con uno scopo cooperativo ben preciso: coinvolgere nel riequilibrio, non solo il Paese debitore, ma anche il Paese creditore, evitando così l’amplificarsi degli squilibri commerciali. Keynes, infatti, era, in quella sede, tra i pochi a intravedere il gravissimo rischio commesso al fatto che il Paese in surplus non spendesse l’eccesso di liquidità ma lo trasformasse in ulteriore crescita, operando, così, in modo non cooperativo. Egli, in questo comportamento, vedeva, a ragione, il rischio della depressione del commercio internazionale e la nascita di future tensioni tra gli Stati.
La sua proposta era volta a garantire adeguata autonomia fiscale ai singoli Paesi, di modo che anche un Paese in deficit potesse risollevarsi attuando politiche di pieno impiego, mentre un Paese in surplus doveva solo farsi carico di diventare più ricco e fungere da propulsore della domanda di beni provenienti dagli altri Paesi.
La proposta di Keynes, a Bretton Woods, dopo un aspro dibattito durato settimane, fu rigettata e a essa fu preferita, per ragioni politiche, la proposta della nuova potenza egemone: gli Stati Uniti d’America. Sebbene quest’ultima proposta, fosse ben più conservatrice di quella di Keynes, gli influssi del suo pensiero si risentirono, comunque, in parte e, per circa un trentennio, garantirono il periodo di sviluppo economico più possente, che l’umanità abbia mai conosciuto.
Dalla seconda metà degli anni ’70, anche a causa della denuncia unilaterale degli accordi di Bretton Woods, da parte degli Stati Uniti d’America, e a seguito delle crisi petrolifere degli anni ’70, un’altra dottrina tende a sostituirsi a quella keynesiana; una dottrina che sostituisce alla cooperazione internazionale il paradigma della competizione internazionale. Piano, piano, la politica fiscale diventa sempre più inattuabile perché gli Stati, gradualmente, perdono la propria autonomia fiscale, costretti a sostituire, all’idea dello sviluppo, il principio della crescita, che, però porta con sé l’acuirsi degli squilibri commerciali; proprio ciò che temeva Keynes.

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