Un primo sguardo a John Maynard Keynes
Senza alcun dubbio John Maynard Keynes è stato il più
grande fra tutti gli economisti. Persino i suoi delatori sono stati costretti
ad ammetterne la grandezza e si sono dovuti servire di una parte dei suoi
insegnamenti per portare avanti le loro dottrine. Il modello di Hicks, un perno della teoria economica
oggi dominante, noto anche col nome di modello IS – LM (Investiment Saving – Liquidity Money), ne è l’esempio più evidente;
esso è l’applicazione della dottrina keynesiana depurata, per così dire, dei contenuti più scomodi e infarcita di un
concetto del tutto estraneo alla concezione del grande economista inglese: l’equilibrio macroeconomico. Tra i contenuti della dottrina keynesiana, uno su
tutti è stato messo in subordine, perché da molti considerato oscuro e
incomprensibile: l’incertezza che affligge
gli operatori economici. Keynes era dotato di una sensibilità in campo economico fuori dal comune che gli derivava
dall’essere stato un esperto investitore in borsa.
John Maynard Keynes |
Fu proprio la crisi
finanziaria del ’29 e gli eventi che vi conseguirono a modificarne
l’atteggiamento, sebbene avesse già mostrato questa sua innata sensibilità
quando, nel ’19, era stato chiamato, per conto della delegazione britannica, a
discutere le condizioni di pace con la Germania sconfitta. Nel corso di
quell’esperienza egli si oppose strenuamente alle pesantissime richieste di riparazione
da parte della Francia, perché ne intravedeva le infauste conseguenze, al punto
da abbandonare la sede dei colloqui, in segno di protesta.
L’incertezza
è il nucleo del pensiero economico di Keynes. Questo nucleo s’intravede, oltre
che nella sua opera più importante, la «Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta», nel «Trattato sulla moneta», in cui
attribuisce alla moneta il ruolo di mitigare
il senso d’inquietudine degli operatori quando è presente incertezza.
Questa sua intuizione lo portò a introdurre il concetto di preferenza per la liquidità che si manifesta quando gli operatori
fronteggiano l’incertezza spostando
le loro attività di portafoglio verso gli accumuli
monetari liquidi. Fu, inoltre, il primo, assieme al suo contemporaneo Alois Schumpeter, a intuire l’importanza
del circuito della moneta bancaria
che dà origine agli investimenti produttivi.
Proprio per l’importanza che ogni individuo
attribuisce alla moneta, come risoluzione dell’incertezza, Keynes riprende e fa propria una tesi marxiana; quella, secondo cui, gli scambi economici non sono del
tipo Merce – Denaro – Merce, cioè la
moneta funge solo da intermediario negli scambi, ma sono del tipo Denaro – Merce – Denaro, cioè la merce è
solo il mezzo affinché, negli scambi, possa ottenersi ancora più moneta.
Keynes intuì che l’incertezza
tende a tramutarsi in preferenza per la
liquidità e questa dà, a sua volta, origine al blocco del circuito monetario. Un’altra grande intuizione di Keynes
è l’individuazione del tasso d’interesse
critico che, nell’ambito del mercato finanziario, induce la trappola della liquidità. Ogni
investitore, sostiene Keynes, ha una propria percezione del sistema economico e
della sua redditività e quando il tasso d’interesse nominale scende sotto il tasso d’interesse critico, egli
preferisce non smobilitare la propria liquidità e non investe. Ciò è dovuto al
fatto che la liquidità, costituendo un antidoto
all’incertezza, richiede per la propria smobilitazione un prezzo da pagare
che è, per l’appunto, il tasso
d’interesse. Se l’incertezza è elevata, in rapporto al tasso d’interesse
vigente, l’investitore non smobilita la liquidità in proprio possesso.
Quando si manifestano queste condizioni, l’unica
figura in grado di intervenire e contrastare l’incertezza dilagante è lo Stato. Questi deve indebitarsi per
sostituirsi agli investitori che non
investono e deve farlo mediante la spesa pubblica. Solo in questo modo, il circuito
della moneta può riavviarsi. Per contro, le politiche monetarie della Banca Centrale, in condizioni di trappola della liquidità, sono del tutto
illusorie. Anche l’emissione a pioggia di moneta si rivela inutile perché gli
Istituti di Credito non investono su quei settori che non garantiscono
un’adeguata redditività agli investimenti.
La spesa
pubblica, dice Keynes, deve avere uno scopo ben preciso: contrastare la disoccupazione e garantire il pieno impiego. Ciò, al fine di favorire i consumi tramite l’espansione
della ricchezza e, in particolare, il potenziamento
della domanda; questa, a sua volta, per la sua natura connessa alla liquidità riduce l’incertezza e
favorisce gli investimenti. La spesa
pubblica deve, quindi, intervenire sempre quando si manifesta incertezza, proprio sui settori più
colpiti dall’incertezza. Al
contrario, la semplice emissione monetaria a pioggia può non giungere, affatto,
laddove serve, perché bloccata dalla preferenza
per la liquidità che orienta, invece, verso le attività puramente
speculative.
Inoltre, la spesa
pubblica va sempre anticipata da parte dello Stato e l’imposizione fiscale, che permette il recupero delle somme
anticipate, deve avvenire solo dopo. Ciò perché la spesa pubblica, per effetto del moltiplicatore
keynesiano, ben superiore all’unità, produce ricchezza amplificata proprio
dal moltiplicatore e il prelievo fiscale deve avvenire solo dopo che la
ricchezza si è amplificata nel modo suddetto. In questo modo, è anche garantito
il pareggio di bilancio, in prospettiva
futura, da parte dello Stato, non certo sempre e in tutte le condizioni.
Affinché ciò possa essere compiuto, lo Stato deve,
però, possedere un’adeguata autonomia
e il controllo della propria emissione monetaria. Proprio nell’intento di garantire ciò, Keynes tentò di compiere
il suo ultimo grande sforzo: la riforma
del sistema monetario internazionale. Si era, all’epoca, nel ’44, quasi
alla fine della seconda Guerra Mondiale, e i delegati di 80 nazioni si erano
riuniti, in una località del New Hampshire, denominata Bretton Woods, per ridefinire le regole della politica monetaria
internazionale, nel dopoguerra. Keynes, come rappresentante del governo
britannico, presentò la sua proposta di riforma: Proposals for an International Currency Union.
La sua proposta era la creazione di una valuta di riserva internazionale,
denominata Bancor, emessa da un’International Clearing Bank, una sorta di
banca mondiale che operava a camera di
compensazione con saldi sempre pari a zero, concepita in modo che gli
squilibri commerciali fossero sempre compensati e tali da operare con uno scopo cooperativo ben preciso:
coinvolgere nel riequilibrio, non solo il Paese
debitore, ma anche il Paese creditore,
evitando così l’amplificarsi degli squilibri
commerciali. Keynes, infatti, era, in quella sede, tra i pochi a
intravedere il gravissimo rischio commesso al fatto che il Paese in surplus non spendesse l’eccesso di liquidità ma lo
trasformasse in ulteriore crescita,
operando, così, in modo non cooperativo.
Egli, in questo comportamento, vedeva, a ragione, il rischio della depressione
del commercio internazionale e la
nascita di future tensioni tra gli Stati.
La sua proposta era volta a garantire adeguata
autonomia fiscale ai singoli Paesi, di modo che anche un Paese in deficit potesse risollevarsi attuando
politiche di pieno impiego, mentre un
Paese in surplus doveva solo farsi
carico di diventare più ricco e
fungere da propulsore della domanda di
beni provenienti dagli altri Paesi.
La proposta di Keynes, a Bretton Woods, dopo un aspro dibattito durato settimane, fu
rigettata e a essa fu preferita, per ragioni politiche, la proposta della nuova
potenza egemone: gli Stati Uniti d’America. Sebbene quest’ultima proposta,
fosse ben più conservatrice di quella di Keynes, gli influssi del suo pensiero
si risentirono, comunque, in parte e, per circa un trentennio, garantirono il
periodo di sviluppo economico più
possente, che l’umanità abbia mai conosciuto.
Dalla seconda metà degli anni ’70, anche a causa della
denuncia unilaterale degli accordi di Bretton Woods, da parte degli Stati Uniti
d’America, e a seguito delle crisi petrolifere degli anni ’70, un’altra
dottrina tende a sostituirsi a quella keynesiana; una dottrina che sostituisce
alla cooperazione internazionale il
paradigma della competizione internazionale. Piano, piano, la politica fiscale diventa sempre più
inattuabile perché gli Stati, gradualmente, perdono la propria autonomia
fiscale, costretti a sostituire, all’idea dello sviluppo, il principio della crescita,
che, però porta con sé l’acuirsi degli
squilibri commerciali; proprio ciò che temeva Keynes.
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