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lunedì 11 aprile 2016

Standard monetari e tassi d’interesse



Un’attrazione fatale


Il Gold Standard fu lo standard monetario che si affermò pressoché in tutti i Paesi più sviluppati sul finire dell’ottocento, a seguito della sua adozione in Gran Bretagna, alla fine delle guerre napoleoniche, e successivamente nell’impero prussiano, a seguito della vittoria dei prussiani nella battaglia di Sedan contro i francesi. In sostanza, il Gold Standard consisteva nell’agganciare il valore della moneta emessa alle riserve d’oro detenute dalla Banca Centrale di ciascun Paese. Esso fu abbandonato solo durante la prima guerra mondiale, tranne che negli USA, per via dell’enorme esubero, non coperto da riserve auree, di moneta necessaria a sostenere gli sforzi bellici. Fu ricostituito dai vari Paesi al termine del conflitto e fu la principale causa causans della Grande Depressione degli anni ’30. La caratteristica principale di questo standard monetario era un elevatissimo grado di rigidità, volto a mantenere il più possibile immutato il valore della moneta e il cambio.


La forte rigidità costringeva tutti i Paesi aderenti a questo standard monetario a seguire politiche economiche, nel concreto, uniformi e prive di qualsiasi possibile margine di autonomia. In particolare, l’impossibilità di poter agire sul cambio costringeva i Paesi che subivano un deficit commerciale ad attuare l’unica possibile forma di riequilibrio che lo standard permetteva: la svalutazione interna, cioè quell’insieme di provvedimenti atti a ridurre il livello dei prezzi, abbassando, innanzitutto, i salari. Le svalutazioni interne divennero così feroci e spietate che molti Paesi, se non tutti, preferirono attuare un’altra pratica che depresse ancor di più il commercio internazionale: il protezionismo, ossia l’attuazione di dazi doganali che ostacolassero le importazioni da parte dei Paesi con prezzi più competitivi.
La gravità delle svalutazioni interne si aggravò, però, a causa di un altro motivo, molto più sottile da cogliere ma ben più grave per gli effetti da esso prodotti: i differenziali dei tassi d’interesse; quelli che oggi chiamiamo con il nomignolo di SPREAD. Accadeva, infatti, che la rigidità del sistema monetario era così forte che, praticamente, tutti i Paesi erano costretti a mantenere tassi d’interesse uniformi e alti. Un alto tasso d’interesse deprime l’attività produttiva perché riduce il livello degli investimenti, giacché, più è alto il tasso d’interesse nominale, meno gli imprenditori sono invogliati a richiedere prestiti alle banche per finanziare la propria attività.
Qualora un Paese avesse abbassato il tasso d’interesse, per espandere la propria attività economica, avrebbe subito, come effetto immediato, azioni speculative devastanti. Precisamente, gli investitori interni del Paese, appena avvertivano la riduzione del tasso d’interesse, convertivano la moneta interna in oro e spedivano l’oro in quei Paesi in cui il tasso d’interesse era maggiore, col fine di ottenere rendimenti più alti. Fu quello che avvenne all’Impero Britannico, che, a seguito della reintroduzione del Gold Standard, a opera del Cancelliere dello Scacchiere Wiston Churchill, nel 1925, per via del “The British Gold Standard Act”, sotto forma di Gold Bullion Standard, cioè convertibilità con verghe d’oro e non più con monete d’oro, subì un ferocissimo attacco speculativo che comportò fortissimi deflussi di oro dalla Banca d’Inghilterra verso la Borsa americana, che garantiva facili guadagni con alti rendimenti. L’effetto di quest’azione speculativa minò in maniera definitiva le capacità produttive di quella che era stata, fino a quel tempo, grazie alle sue colonie, la superpotenza economica planetaria e aprì la strada alla Grande Depressione.
Una delle foto più emblematiche della Grande Depressione
Foto di una madre contadina migrante - di Dorothea Lange - 1935
La Grande Depressione è normalmente associata al crollo della Borsa Valori di Wall Street; ma furono proprio gli elevati rendimenti degli investimenti in Borsa e, quindi, gli alti tassi d’interesse negli USA, che precedettero il crollo di Wall Street, a favorire tutta una serie di attività speculative, prima fra tutte quella contro l’Impero Britannico e, in seguito, dal 1931, contro la stessa valuta americana. Il dollaro fu difeso così strenuamente dalla Federal Reserve, che i tassi d’interesse americani s’innalzarono ancor di più, portando il sistema produttivo al tracollo degli investimenti, prima negli USA e, poi, di riflesso, a causa dell’uniformità dei tassi d’interesse che tutti dovevano mantenere, in tutto l’occidente industrializzato. A nulla valsero successive svalutazioni monetarie competitive negli USA (oltre il 40%) e tentativi di abbassare il tasso d’interesse perché il sistema economico USA era, nel frattempo, caduto nella trappola della liquidità.
Sembrava che una cosa del genere non dovesse mai più accadere, «perché» qualcuno avrà pensato «basta che si faccia il contrario, cioè favorire i sistemi economici con il tasso d’interesse più basso, e tutto ciò non accadrà mai più». E invece è successo! Perché?
Il motivo di ciò risiede nell’unica ragione essenziale che originò la Grande Depressione: l’estrema rigidità monetaria; cioè l’impossibilità di poter emettere moneta oltre un certo vincolo imposto, negli anni ’30, dalla convertibilità in oro, e, oggi, dal prevalere di una concezione dell’economia che, in sostanza, non si discosta molto da quella del Gold Standard, se non per gli strumenti impiegati per attuare il controllo rigido della moneta.
In cosa consistono questi strumenti è presto detto; si tratta dell’impiego del sostituto della moneta: il credito attuato tramite finanziamento a lunga scadenza. Questa metodologia, si badi, era in auge anche negli anni ’20 e portò, negli USA, da un lato, a una crescita delle attività finanziarie di borsa spropositata, che ebbe fine nel ’29, dall’altro, a un impoverimento tale nelle campagne da dare origine al fenomeno dei merli, i contadini che stavano appollaiati sulle staccionate delle strade per intere giornate, come fanno appunto i merli, in attesa che qualcuno gli desse del lavoro.
Come visto nel post precedente, la contrazione dell’emissione monetaria è attuabile se è sostenuta da un sistema finanziario estremamente efficiente, soprattutto nella gestione dell’informazione su come evolve il debito associato al credito. Ciò, però, non è sufficiente; occorre che il tasso d’interesse sia il più basso possibile. Come si è visto, ciò induce gli investitori a cercare mercati con rendimenti più alti, in cui il tasso d’interesse è maggiore.
Questa volta, perciò, rispetto agli anni ’20 e ’30 la situazione è capovolta: a subire gli effetti speculativi non sono più i sistemi economici con il tasso d’interesse più basso ma quelli con il tasso d’interesse più alto. Ciò perché, mentre all’epoca del Gold Standard si trasferiva oro, adesso si trasferisce un’altra cosa: debito. In effetti, la differenza sta tutta qui, perché il controllo della moneta si attua tramite un sostituto che crea credito, da una parte, e debito dall’altra; in sostanza, si tratta di un Debt Standard, ossia uno standard monetario non più basato sull’oro, ma sul debito a lunga scadenza, avente sempre lo scopo di costituire un vincolo imposto.
L’emissione monetaria associata, invece, a debito a breve e media scadenza, risulta contratta e affidata principalmente a due soli canali monetari: il canale bancario e quello estero. La contrazione, se non la totale eliminazione, del canale monetario del Tesoro, associato alla Spesa Pubblica serve proprio a imporre un vincolo che costringa chi è in deficit ad attuare una svalutazione interna; esattamente come all’epoca del Gold Standard.
La situazione che si determina non è dissimile da quella che precedette e, poi, si protrasse nella Grande Depressione, perché l’impossibilità di impiegare il canale monetario del Tesoro toglie autonomia ai Governi, le cui decisioni sono, ora, dettate solo dagli umori generati dalle informazioni che ricevono i creditori: i mercati finanziari.
In sostanza, l’onere di uno squilibrio commerciale è interamente trasferito al Paese in deficit che deve attuare riforme strutturali; un modo edulcorato di dire che esso deve compiere una pesante svalutazione interna. Il modello di economia dinamica mostra, però, che le svalutazioni interne non risolvono alcun problema, cioè non è possibile il riequilibrio se non a danno di qualche malcapitato cui trasferire il proprio debito. Non solo, uno squilibrio, una volta iniziato, senza un apporto monetario aggiuntivo, è destinato solo ad amplificarsi e ciò è testimoniato dal modo in cui si accresce l’entropia economica nel sistema in surplus e dal modo in cui si riduce l’entropia nel sistema in deficit; nel primo, l’entropia cresce più di quanto diminuisca nel secondo, perché l’entropia totale deve aumentare.
Se il sistema in deficit s’impoverisce sempre più per effetto della riduzione di entropia, il sistema in surplus è, in realtà, all'interno di una polveriera, perché il credito vantato può sfuggire al suo controllo in ogni momento, ed è così costretto a una sua arcigna difesa a oltranza, costi quel che costi, perché se il credito dovesse svanire per insolvenza dei debitori, esso andrebbe incontro a una crisi finanziaria catastrofica.
In estrema sintesi; il controllo della moneta, comunque sia esercitato, con l’oro o con il debito a lunga scadenza, è destinato a generare un’attrazione fatale tra sistemi economici con differenziali tra tassi d’interesse che tendono a trasferire il vincolo monetario da un sistema all’altro, generando scompensi monetari pesantissimi per i sistemi interagenti, oltre che sofferenze e privazioni.

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